Che poi diciamocelo...
Bambina muore a 10 anni per una sfida su Tik Tok
Che poi diciamocelo...
Bambina muore a 10 anni per una sfida su Tik Tok
Che poi diciamocelo: stai pensando che è una cosa che a te non capiterebbe mai perché conosci tuo figlio? Potrebbe essere che stai sbagliando
Sento spesso dire ultimamente che questo mondo è malato ma non di Covid. La notizia, ennesima e raccapricciante, è quella di una bambina di 10 anni morta soffocata per una sfida lanciata su un social network. Il social dei giovani, Tik Tok, quello dove pubblicare balletti, mossette e dove, forse, morire in diretta a 10 anni. Il social ha smentito ci fossero sfide in atto, la procura ha sequestrato il telefono della bambina e sta indagando per verificare se ci siano gli estremi per il reato di istigazione al suicidio.
Ho ancora ben chiaro nella memoria l’episodi del bambino di Napoli che a settembre si lanciò dal balcone, vittima forse di un gioco, anche in quel caso, penetrato nella sua mente attraverso i social. Le chiama “Challange dell’orrore”: sfide con sfondi autolesionistici che inducendo uno stato di paura, finanche terrore, su soggetti manipolabili (i bambini) provocano la loro reazione con l’accettazione della sfida, il portare a compimento la challange (per dimostrare di esserne all’altezza o per scappare come nel caso del bambino di Napoli) fino ad arrivare anche a morire.
Questo fenomeno si affaccia a casa nostra con Blu Whale, la balena blu che ha portato pochi anni fa, centinaia di bambini, giovani ed adolescenti a perdere la vita gettandosi da palazzi e grattacieli come sfida finale passando per inflizione di punizioni corporali, interruzione dei cicli del sonno, modifica radicale di ogni abitudine “normale” fino ad arrivare al suicidio senza che nessuno se ne accorgesse.
Le questioni sono molteplici e vanno affrontate con vigore prima che sia veramente troppo tardi.
Prima di tutto per arrivare a queste sfide ci vogliono gli strumenti e gli strumenti sono cellulari e tablet. Io sono arretrata, retrograda, quasi anziana nel pensiero ma non credo che, pur nell’era del digitale e pur in un momento come quello che stiamo vivendo, dotare bambini di questo tipo di apparecchiature sia un fatto consono. Almeno non senza un controllo serrato e divieti categorici. In sostanza se proprio devi navigare puoi farlo solo dove ti vedo io. E se proprio si sceglie di dotarli, perché ci sono anche situazioni in cui, quasi ce ne dimentichiamo con tutte le nuove funzioni attribuite ai telefoni, anche ai bambini avere un telefono serve. Penso a figli di genitori separati o di genitori che viaggiano quindi sono spesso lontani, bambini che a loro volta viaggiano perché magari frequentano una scuola o fanno uno sport lontano da casa o che li porta lontano da casa. Il telefono nasce per telefonare. Tutto il resto? È la moda del momento ma invito ad una profonda riflessione: quante volte anche un adulto si perde nei meandri della rete? Come possiamo credere che ad un bambino non accada? I bambini sono minori, la legge dice che devono essere tutelati dai genitori o da chi ne fa le veci poiché non si ravvisa nel bambino la capacità di discernimento così come non si ravvisa la maturità di ponderare le situazioni guardandone il complesso delle sfaccettature.
I bambini hanno fede: per loro natura sono propensi a credere e in fondo credono pressoché incondizionatamente a quello che gli dicono genitori ed insegnanti, e talvolta malintenzionati, e salvo rari casi scoprono molti anni dopo se hanno fatto bene o meno a credere.
I bambini sono ingenui e anche qui, salvo rari casi, non conoscono il male perché è un concetto che ci mette anni ed esperienze prima di formarsi in modo netto nella nostra mente (e anche noi adulti non ce lo abbiamo poi così chiaro).
I bambini non hanno il senso del pericolo. Conosco bambinoni cresciuti che ancora non ce l’hanno ma i bambini quelli veri non sanno emotivamente che se si lanciano dal divano per simulare Spiderman e atterrano male si rompono un braccio. Lo sanno razionalmente ma non sanno usare prioritariamente la razionalità come elemento di analisi del da farsi.
I bambini non pensano al dopo. Da una parte è invidiabile questo loro modo di approcciare la vita e per certi versi dovremmo proprio prendere spunto da loro. Vivono qui ed ora e non contemplano le conseguenze delle loro azioni anche se sono conseguenze alla loro portata (se inizio tardi a fare o compiti poi finirò tardi e non potrò giocare). Figuriamoci se possono contemplare la conseguenza di stringersi una cinta intorno al collo e tirarla fino a.. perché purtroppo fino a cosa non lo sappiamo e non possiamo più chiederlo a quella bambina che in questo modo si è tolta la vita nel bagno di casa sua.
E succede anche per cose meno definitive, episodi di bullismo, vessazioni, prepotenze. Niente di buono per nessuno di loro. E noi adulti non pensavamo, non credevamo, “io conosco mia figlia/mio figlio”, “io so esattamente come ragiona”, “lui non lo farebbe mai”, ci metterei la mano sul fuoco.. e spesso e volentieri finiresti per bruciarti e non perché non svolga correttamente il ruolo genitoriale, semplicemente perché quegli esserini lì possono sorprendere con i loro comportamenti anche il genitore più presente ed attento, perché cambiano, sperimentano, si spingono un po’ più in là, vogliono vedere fin dove possono arrivare.. e questa è la natura da sempre.. Oggi però sono cambiati gli stimoli e le situazioni su cui gli adulti di domani cercano sperimentazione e conferme e il terreno è minato letteralmente.
E poiché il mondo è così pieno di insidie, mi chiedo: è proprio necessario dotarli di un ulteriore elemento di pericolo in un momento di sviluppo e di crescita così importante ed in un tempo folle come quello che stiamo vivendo? Perché anche con i dovuti controlli, che comunque per ovvie ragioni non devono essere troppi e troppo stringenti, dare in mano uno strumento potenzialmente pericolosissimo e potentissimo a menti che per natura non lo possono ponderare? Solo per tenerli al passo con i tempi o non farli sentire “inferiori” rispetto agli altri? È forse questa l’evidenza che ci sarebbe da considerare: la necessità impellente di un grande salto indietro generale per noi genitori e per loro bambini. Perché un tempo tornavano a casa pieni di fango o con le calze piene di buchi o magari con un occhio nero: questioni che emotivamente (con il giusto supporto e anche un filo distaccato) potevano essere prime sfide di gestione di loro stessi nella relazione con gli altri, con il pericolo, con il posso o non posso. Non è colpa di nessuno se la società oggi ci chiede di fare e di essere così ma quella bambina potrebbe essere mia figlia e da madre oggi sento una spina nello stomaco che proprio non vuole andare giù. Non esiste un manuale per far bene il lavoro più difficile del mondo e ahimè non possiamo proteggerli da tutto. Possiamo cercare di giocare d’anticipo senza avere la presunzione di conoscere a perfezione quel che passa per le loro teste perché non lo sappiamo come i nostri genitori non lo sapevano per noi. Era il contorno che era diverso, senza diventare banali ma con grande realismo. Palermo piange un’anima innocente. La vera challange sarebbe interrompere questo trend dentro casa nostra, ognuno nella propria, e il risultato di questa sfida, magari, sarebbe che una cosa del genere potrebbe non accadere più.
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