cultura e spettacolo

Laura Lattuada in scena al Teatro Romano

 

La nota attrice, insieme ad Andrea Beruatto, sarà protagonista dello spettacolo 'Fedra'

 

Laura Lattuada sarà la protagonista di “Fedra”, il nuovo appuntamento di “Teatri in Rete secondo atto”, la stagione di Magazzini Artistici che farà tappa giovedì prossimo 29 agosto a Spoleto. Il capolavoro di Ghiannis Ritsos, per la regia e spazio scenico di Alessandro Machìa, è in programma al Teatro Romano alle 21,15. In scena, insieme alla conosciutissima attrice italiana, Andrea Beruatto nella parte di Ippolito.

Spoleto è un altro degli appuntamenti di “Teatri in Rete, secondo atto” (realizzata con fondi Por Fesr della Regione Umbria) che tocca 8 città umbre (Terni, Spoleto appunto, San Gemini, Calvi dell’Umbria, Città della Pieve, Massa Marta, Otricoli e Montecastello di Vibio) e coinvolge 32 artisti di richiamo nazionale.

Lo spettacolo – “Fedra” è un minuzioso lavoro di sonorizzazione della scena, di tessitura di suoni reali della natura e di rumori come provenienti dalla psiche di Fedra, farà emergere quella quarta dimensione, quell’invisibile che abita i testi di Ritsos, dando vita a uno spettacolo polivocale, onirico e fortemente suggestivo. Scritto in esilio e terminato nel 1975, poco dopo la fine del regime dei Colonnelli, Fedra, appartenente alla raccolta denominata Quarta dimensione, è forse uno dei testi più riusciti del grande poeta greco Ghiannis Ritsos, il più palpitante, a un tempo carnale e mistico, interpretato da una straordinaria Laura Lattuada. Ritsos, attraverso il meccanismo della confessio, riflette sul desiderio come oltranza e abisso, che confina con l'estasi, ma anche sul tempo, sulla bellezza del corpo come luogo del mistero, come tempio sacro, in una prossimità di amore e morte. Fedra parla, dice tutto, dichiara in maniera feroce il suo desiderio bruciante per il giovane e bellissimo figliastro Ippolito. Parla a un corpo che l’ascolta muto, quel corpo che si nega, si sottrae, e che per Fedra è una casa, un tempio.

Ippolito, nella sua fissità da oggetto del desiderio è esposto allo sguardo, su un piedistallo, come una statua greca, offerto per essere scrutato e toccato, come un Cristo sul quale Fedra rovescia addosso parole deliranti e lucidissime, di passione cieca e di negazione. Questa liberazione della parola avviene in una scena obitorio, fredda, invasa da una luce bianca e fatta di pochi elementi d’arredo, i cui bisturi sono proprio quelle parole che in un eccesso lirico e allo stesso tempo erotico, tentano di toccare il corpo di Ippolito, di comprometterlo, di gettarlo nel mondo, di umanizzarlo, smascherando come falsa la castità del ragazzo, il suo rifiuto del desiderio, “la santità della privazione”. Ma a Fedra, inconciliabile e umanissima, di fronte all’impossibilità di conoscere quel corpo e alla sproporzione del suo desiderio senza compimento, di fronte alla “gelida santità” di Ippolito, non resta che il suicidio e la vendetta della lettera infamante, come ultima possibilità di “toccare” l’amato.



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