cultura e spettacolo

Il Macbeth di Franco Branciaroli e la brughiera dell’ingranaggio immaginifico

 

In scena al Teatro Morlacchi di Perugia, domenica 18 dicembre, in occasione dei 400 anni dalla morte del Bardo, la vicenda del re di Scozia più sanguinario del teatro shakespeariano

 

Mani che non si possono, compulsivamente, lavare del sangue di vittime innocenti. Mani che si strofinano, che sono, apparentemente, pulite. Eppure, mani che restano macchiate di una colpa immonda. Una colpa che, inizialmente, Lady Macbeth, non sentiva come propria, avendo indotto il


 marito, sotto l'effetto di arti magiche e con la voce profetica e per certi versi sibilla di tre streghe che si erano date appuntamento nella brughiera con due generali dell'allora re di Scozia, Duncan, Macbeth e Banquo, preannunciando - in lingua inglese: tutto il resto del canovaccio che Franco Branciaroli, primo attore e regista del Macbeth di Shakespeare, utilizza per una delle tragedie più celebri, appartenenti alla maturità del Bardo, è in italiano, nella traduzione di Agostino Lombardo ("Un mistero inesatto", per citare Steiner, e per rimarcare che leggere significa tradurre e tradurre equivale a tradire il testo il lingua originale) - al secondo che sarebbe divenuto barone e poi re.
Nel dramma di cui è primo attore e regista, il milanese Franco Branciaroli, dopo esserne già stato protagonista nell'edizione di Giancarlo Sepe, datata al 1994, opta per una scenografia spoglia, che riflette l'ambientazione cupa e notturna della tragedia: le porte, a separare l'orrore degli omicidi reiterati cui Macbeth, da quello di Duncan innanzi, sembra prendere gusto, non per efferatezza, forse nemmeno per teoria del crimine, della frode, o dell'intellettualità sanguinaria, alla stregua di altri suoi compagni di canovaccio teatrale, come Riccardo III o Iago, ma per terrore, per mancanza di intelligenza. La storia è nota, e l'intento, qui, non è quella di ripercorrerla. Certo è, che nella rappresentazione di Branciaroli molti sono gli echi antichi e moderni, che, insieme, restituiscono la dimensione onirica e tremendamente reale di un'ambizione malsana che non è nemmeno un'ambizione, di una narrazione fatta per visioni, il cui unico ingranaggio è immaginifico, e i cui atti e abominevoli assassini che si compiono, tutti dietro le quinte e di cui lo spettatore prende atto a seguito di urla strazianti, sono il frutto di una incondizionata schiavitù du quelle stesse visioni. Sembra da chiedersi, dopo i delitti di Banquo, della moglie di lui, dei figli di un barone ribelle, Macduff, diano anche solo una parvenza di realtà a questa ambizione-non ambizione. E, se è vero che, come preannunciano le streghe, "nessun nato da donna potrà mai uccidere Macbeth", viene allora, ancora da chiedersi se le due teste del monstrum, l'una appesa a un'asta e scortata trionfalmente da Macduff, strappato al ventre di sua madre, senza essere partorito da lei medesima, l'altra rimasta, invece, attaccata al suo corpo esangue, non richiamino, in una intertestualità di fondo, il ritratto di Dorian Gray. La conversazione che Luca Doninelli ha intrattenuto con Franco Banciaroli sembra poter rispondere ad alcuni di questi quesiti: "La sua natura [i.e. del Macbeth] non è tanto la brama di potere, quanto piuttosto una certa propensione alla fantasia. Macbeth è prigioniero dell'immaginazione (...). Questo immaginario, anziché allargare le sue vedute, le restringe fino a impedirgli qualsiasi altro modo di esistere". E la catarsi allora, in senso aristotelico, prima, nietzschiano poi, non consiste nel lavarsi le mani del sangue, ma di "riconoscersi peggiori". L'ingranaggio narrativo conosce solo la noia, frammista al terrore, l'ambientazione minimale e di brughiera, le insegne luminose verde a segnalare il luogo dove le vicende, immaginate o realmente vissute, si svolgono, il tempo, l'assenza di ragione, la prigionia di una o più visioni.


 



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